È un giorno di pensieri non dico profondi, ma quantomeno elaborati. Quello che otteniamo con il nostro darci da fare sembra una frazione dello sforzo che ci mettiamo. Lo sforzo stesso ci pare anche degno di nota, qualcosa che può emergere durante una conversazione, per dare giusta luce alla fatica e all’abnegazione.
Poi fai due conti con il ritmo universale e ti rendi conto che la prima sonda Voyager ha messo un giorno luce di distanza tra sé e noi. Un giorno, mica un anno. Anzi, di anni ne ha impiegati quasi cinquanta, in viaggio a poco meno di diciotto chilometri al secondo. Quando corriamo sul filo del limite autostradale, ne facciamo zero virgola zero trentasei.
Che cosa c’entra con questo blog? Forse nulla. La tecnologia però è una forza straordinaria. Andiamo piano e siamo piccoli, ma un secondo luce alla volta ci affacciamo sempre più in là. E siamo nati per lasciare un segno. Un segnetto magari, non se ne accorge nessun altro, magari. Eppure, tutte le volte che premiamo Invio e ritorna il prompt dopo avere convinto una macchina di von Neumann a fare qualcosa per noi, abbiamo diritto di sentirci zii in miliardesimo di quell’aggeggio antennato e spigoloso che funziona allo stesso modo. Solo che, da quando alla Nasa premono Invio a quando riappare il prompt, sono passate ventiquattro ore.
Siamo mortali per tendere all’immortalità, che si raggiunge attraverso la bellezza da una parte, la tecnologia dall’altra. Lentamente, la nostra immortalità ha raggiunto il giorno luce. È qualcosa.