Riccardo ha ovviamente ragionissima nell’affermare nelle sue More stray Observations — on Liquid Glass, on Apple’s lack of direction, then zooming out, on technological progress che con Steve Jobs è morto qualcosa di importante. Sono passati quattordici anni e, per me, è continuamente ieri.
Sono comunque passati quattordici anni e, spiegavo ieri o almeno provavo a farlo, sono abbastanza da indurci a cambiare le nostre metodologie di valutazione. Se fossero stati quattordici anni dal millenovecentoottantaquattro al millenovecentonovantotto, saremmo passati dalla presentazione storica del primo computer capace di salutare il pubblico a voce al salvataggio quasi in extremis di un’azienda con un grande prodotto e un management incapace di governare persino il catalogo dei Mac in vendita. Usare lo stesso metro per giudicare lo Steve Jobs ventinovenne con il farfallino e il bollito Mike Diesel Spindler sarebbe palesemente sterile.
Per combinazione, Chris Espinosa aveva giusto quattordici anni quando ha lasciato la scuola per mettersi a lavorare in Apple come dipendente numero otto. (Non sono quei tempi lì, eh? Eppure Espinosa saltò solo il liceo, per tornare all’università e laurearsi intanto che faceva il freelance per Apple; e poi tornare in Apple a college completato. Per come è la scuola oggi, faticherei a definirla una cattiva idea).
Espinosa, oggi decano delle persone in servizio presso Apple, è l’autore della Calcolatrice di Macintosh. Lo racconta Andy Hertzfeld su Folklore: addetto alla documentazione tecnica, Chris doveva scrivere quella di QuickDraw. Per capire bene la tecnologia, decise di realizzare un demo e scelse come soggetto una calcolatrice, da inserire nel menu Apple tra gli altri Desk Accessory, un’idea che lo intrigava.
Il suo lavoro però doveva passare al vaglio di Steve Jobs, arbitro insindacabile dell’estetica, del design, dell’interfaccia di Macintosh.
Eravamo tutti riuniti intorno mentre Chris mostrava la calcolatrice a Steve e tratteneva il fiato in attesa della sua reazione. “Beh, è un inizio”, disse Steve, “ma fondamentalmente fa schifo. Lo sfondo è troppo scuro, alcune righe hanno uno spessore sbagliato e i pulsanti sono troppo grandi”. Chris rispose a Steve che avrebbe continuato a cambiare la calcolatrice fino a quando a Steve sarebbe andata bene.
Cominciò un tiramolla estenuante, a maggior ragione perché lo sviluppo di Macintosh correva sul filo del rasoio a fronte del calendario e delle specifiche del software. Chris cambiava, Steve giudicava, Chris cambiava ancora. Finché arrivò l’ispirazione.
Il pomeriggio seguente, invece di una nuova iterazione della calcolatrice, Chris presentò il suo nuovo approccio, che battezzò “the Steve Jobs Roll Your Own Calculator Construction Set” [il set Steve Jobs per la costruzione di una calcolatrice fai-da-te]. Ogni decisione riguardante gli attributi grafici della calcolatrice erano parametrizzati dentro menu a discesa. Si potevano modificare lo spessore delle righe, la dimensione dei pulsanti, gli sfondi e via dicendo.
Il finale è scontato. Come Steve vide che cosa aveva a disposizione, iniziò a smanettare con i parametri e dopo dieci minuti la Calcolatrice di Macintosh aveva il suo aspetto definitivo, che rimase tale per molti anni.
Ho passato diverse notti a sognare un Mac, ma non solo, dove tutta l’interfaccia è totalmente parametrizzata. Adattabile a piacere su qualsiasi schermo, con qualsiasi periferica di input, qualsiasi sistema di colore o mancanza di esso, qualsiasi risoluzione, qualsiasi tutto. Jef Raskin probabilmente ha sognato qualcosa del genere a occhi aperti, mentre progettava la sua macchina completamente modulare in cui ogni pezzo di software dialogava con gli altri e contemporaneamente conteneva gli autotest che garantivano l’assenza di bug.
Ma Raskin sognava quando si poteva mettere sul mercato un apparecchio con un megabyte di Ram e uno schermo a due bit da cinquecentododici per trecentoquarantadue. Se si reincarnasse oggi, probabilmente rimorirebbe disturbato come accadde a Georg Cantor, lo scopritore dei numeri transfiniti. Come accadrebbe a ciascuno di noi, se provassimo – che so – a parametrizzare completamente il Finder di oggi. Naturalmente con tanto di vincoli per evitare incompatibilità o situazioni indesiderabili, con icone più grandi delle finestre a disposizione o menu troppo lunghi per stare dentro a uno schermo troppo basso.
E Steve Jobs? Diresse da par suo l’estetica e il design di Macintosh. Un’impresa monumentale, per la quale verrà ricordato finché ci sarà qualcuno ancora vivo sulla Terra. Il Finder monocromatico con un solo tipo di finestre e di icone, da usarsi con otto(?) font fatti in casa su uno schermo noto di dimensioni fisse, più sei Accessori di Scrivania, MacPaint, MacWrite. Tutto qui? Un cavolo. Nel suo tempo, è stata – ripeto – un’impresa monumentale. Un nuovo capitolo nella storia della tecnologia.
Per arrivarci, Jobs fu disposto a passare due o tre giorni a trovare l’aspetto giusto per la Calcolatrice. Sappiamo tutti che Tim Cook, l’amministratore delegato, sa fare bene certe cose ma non questa; probabilmente Craig Federighi, il responsabile del software, la sa fare ma fino a un certo punto.
Supponiamo tuttavia di avere un figlio segreto di Raskin, di pari talento e determinazione, intenzionato a supervisionare ogni aspetto software dell’offerta Apple dal punto di vista dell’estetica e del design. Il Finder a miliardi di colori su schermi di ogni foggia e dimensione, compreso un visore spaziale, un orologio, un contenitore di programmazione televisiva, un telefono, una tavoletta, un apparecchi senza schermo (AirPods). Interfacce di ogni genere, dal mouse alla voce, la dettatura, gli schermi touch, la Corona digitale, il telecomando, senza pensare alla fantascienza con prototipi neurali e altre amenità; comandi per il video, l’audio, la grafica, il web per visualizzare potenzialmente miliardi di pagine, innumerevoli standard globali da osservare, da ogni parte un requisito specifico di una regione specifica in una nazione specifica e via dicendo, il tutto in qualche decina di lingue, una dozzina di sistemi di scrittura diversi, i requisiti sacrosanti di accessibilità, sincronizzazione in cloud dell’output di un miliardo di persone, la privacy nonostante le pretese di polizie e governi, la conformità alle pretese di polizie e governi nonostante la privacy. Sullo sfondo, la produzione di massa di venti milioni di apparecchi ogni mese, con tecniche di avanguardia, a livello globale. Jobs aveva una fabbrica, simbolicamente dietro casa.
Devo elencare applicazioni e utility presenti in una installazione di macOS e confrontare numero e complessità con il primo Macintosh? Il cloud? Apple Store? I servizi e la loro integrazione? Stare a guardare che sotto il cofano tutto sia POSIX, migliaia di programmi che in parte non si possono neanche tanto toccare perché sono open source? Vogliamo confrontare MacWrite con Pages? o Final Cut Pro con, boh, il nulla? Macintosh Programmer’s Workshop con Xcode? (Per anni ho conservato religiosamente quei sei faldoni e quasi riuscivo a capirli tutti).
Non è umanamente possibile per una persona sola dirigere lo sviluppo della Apple attuale con il rigore, la pulizia, la monastica ossessione di Jobs. E con i gruppi di decisori, le deleghe, il moltiplicarsi dei dipendenti e delle funzioni, tenere tutto sotto controllo diventa sempre più difficile. È così che può nascere una controversia attorno all’icona del Finder o Utility Colorsync può viaggiare per anni prima che venga riparato un memory leak di dimensioni catastrofiche per l’intero sistema. (Prego, lanciare Utility ColorSync e confrontare la sua complessità con quella di Finder 1.1b).
Tutto questo non giustifica gli errori e le imperfezioni; stiamo sempre parlando di Apple. Ci aspettiamo uno standard più alto. Però aiuta a stabilire un contesto e a capire come possono succedere o non succedere le cose. Un contesto che, volenti o nolenti, dobbiamo considerare diverso da quello del sogno (realizzato) di armonia di Steve. Che ci manca dolorosamente ma, se fosse ancora qui, avrebbe dovuto cambiare metro su tante situazioni, come del resto sapeva fare con equilibrio e consapevolezza.