All’ennesima messa in discussione del riconoscimento facciale come buona pratica di sicurezza personale, in tempi di sedicenti mascherine con la propria faccia stampata (sedicenti perché non ci sono ancora) e di performance artistiche che metterebbero in discussione l’intera tecnologia, mi permetto di fare notare che la sicurezza non è mai stata una faccenda del cento percento, né mai lo sarà. Piuttosto, si passa da sistemi sicuri a sistemi ancora più sicuri, nel tempo.
Perfino l’asilo della primogenita ha improvvisato comunicazione e distanza tra le maestre e i piccoli. La scuola si è trovata circa inesistente nel momento in cui le aule sono diventate inaccessibili e tra le maestranze c’è fermento, sia positivo che negativo.
Si possono leggere su Facebook post ad alta densità di insegnanti e si scopre quanto sia composita la categoria.
Non conosco lo stato delle cose da dentro, visto dal docente professionista, che ha da misurarsi con il ministero, il programma e mille burocrazie.
Certo che se Android Police titola Fatti un favore e comprati un iPad durante il lockdown, significa che non è la pandemia, ma lo svolgersi delle profezie dell’Apocalisse. La fine del mondo è vicina e questi sono i segni.
Ho toccato il tema tangenzialmente un paio di volte e sono contento che Joshua Topolsky lo abbia preso di petto nello scrivere Grazie al cielo c’è Internet.
Non è solo per i servizi o per le comodità che porta. Internet, è tutto ciò che ne utilizza le condutture, è veramente diventato la linea di contatto con il resto dell’umanità. Non in modo astratto. Nella realtà.
C’è tutto di quello che avrei scritto volentieri, naturalmente a un livello ben superiore.
Le sacche di analfabetismo informatico che abbiamo in Italia normalmente ricalcano Totò e Fantozzi, la farsa nella tragedia e viceversa.
Ora però è diverso. Si deve pensare a che cosa sarebbe questo periodo senza Internet. Senza le videoconferenze. Senza la rete che continua a consentire la comunicazione anche quando tutti stanno a casa. Senza i computer che lavorano senza sosta a supporto degli scienziati che cercano una cura.
Gli analfabeti sono quelli che ti hanno un po’ riso dietro o avversato in modo che non dovesse capitare anche a loro di usare la tecnologia; quelli dell’odore della carta; quelli della scuola democratica che smette di essere tale se avviene a distanza.
IPad ha appena compiuto dieci anni come epitome del computer modulare e in questi giorni lo uso sempre più spesso.
Così mi accorgo di dove lo stato dell’arte è ancora inferiore a Mac: oggi, per esempio, Editorial ha stentato alle prese con un file testo ostico, da due megabyte. C’era di mezzo anche la sincronizzazione con Dropbox, ma non ci sono scuse: su Mac un file di testo da due megabyte neanche inizia a essere un problema.
Poca enfasi quest’anno sui pesci d’aprile ed è facile capire perché. Nondimeno c’è chi ha voluto se non altro liberare la mente e si è cimentato nel progetto di fare funzionare una applicazione Swift su Mac OS 9 Classic.
Il resoconto è puntuale è incredibile. Salta fuori che AIX condivideva più dell’immaginabile con Mac OS 9 e che esiste un emulatore di Macintosh Programmer’s Workshop, oramai un grimorio da leggenda per chi impegnava un metro cubo di libreria con quei sei fascicoli di manualistica.
La primissima fase della mia transizione web da MediaTemple a Linode, da un ambiente di hosting a una macchina virtuale Linux, ha avuto successo: il blog è tornato visibile.
Ha voluto dire scegliere una distro Linux, configurare il networking, impostare Dns, attivare un firewall, configurare un server web, cambiare i privilegi di accesso di sezioni della macchina eccetera. Tutto via riga di comando, talvolta con BBEdit in connessione remota, talvolta con nano.
È la finalissima della March Madness di 512 Pixels.
I risultati delle eliminatorie sono stati variamente sorprendenti, ma immagino per chiunque abbia delle opinioni minimamente formate sui computer Apple.
Il Cubo fu un disastro nelle vendite nonostante un design strepitoso. Un po’ come il primo Macintosh. Chi lo ha avuto spesso lo usa ancora e non ho sentito alcun proprietario lamentarsene.
Il penultimo MacBook Pro è un buon Mac portatile ma non passerà alla storia né sarà usato da qui a dieci anni.
Delle mille soluzioni di videoconferenza possibili emerge come preferenza assai diffusa Zoom, che non è esattamente il mio preferito (invece, Valarea per lavorare e Jitsi per chiacchierare), magari dopo un’occhiata all’elenco di server di iorestocasa.work, che può tornare utile).
Non linko Zoom perché è venuto fuori che la versione iOS trasmetteva dati a Facebook, anche se non si era iscritti a Facebook. Un aggiornamento passato poco dopo l’uscita della notizia ha eliminato il problema, solo che resta la licenza d’uso del programma, che praticamente consente a Zoom di fare un po’ quello che vuole in termini di rispetto della privacy.