Sono su Mac e uso una famosa piattaforma di collaborazione, attraverso la sua app.
In un canale di chat viene depositato un documento. Nel menu associato al documento stesso scelgo il comando di download. Il documento non si scarica e ricevo un errore dalla app.
Riprovo con un altro documento per controprova. Stesso risultato.
Apro le preferenze della app e constato che manca qualsiasi possibilità di indicare dove scaricare i file.
Lancio
una istanza di Mac mini M1 dentro Elastic Cloud 2 di Amazon: un Mac immateriale che esiste fino a che lo uso e posso eventualmente salvare sul servizio per riaccenderlo un’altra volta.
Un Mac che
pago a tempo.
Dicono che i Mac siano computer chiusi? Beh, quello su Elastic Cloud lo configuri come ti pare e, se vuoi cambiare la quantità di Ram o di spazio di archiviazione, giri una (simbolica) manopola.
In poche righe Jason Snell mostra su Six Colors
il collegamento tra Terminale, AppleScript e Comandi rapidi.
Roba che su Windows te la sogni. Non perché manchi; i pezzi, volendo, si trovano. Perché l’integrazione è zero.
Su Mac, invece, non c’è soluzione di continuità tra un Comando rapido ad altissimo livello e un comando di Terminale a bassissimo livello, passando se necessario dal terreno di mezzo rappresentato da AppleScript.
Vale a dire che Apple non si è limitata a comprare
Workflow, la app che ha inventato i Comandi rapidi, ma ha anche provveduto a radicarla nel sistema operativo.
Quante volte ho sentito i profeti di sventura minacciare la scarsa propensione dei dati digitali a sopravvivere. E poi, sventura delle sventure, la mancanza di supporti capaci di leggere i vecchi formati. Poi le locuste, le inondazioni, la pioggia di rane, il gomito che fa contatto con il piede.
Perché un gruppo di appassionati (non un laboratorio di ricerca) nel giro di ventuno mesi (certo non due ore, ma fattibile)
ha decompilato Ocarina of Time.
Dicembre è fatto per scrivere a babbo Natale; novembre è dunque un buon mese per redigere bilanci.
Il buono
Il buono del mio 2021 è sicuramente
OBS Studio, suggerimento di
Fëarandil a cui devo una stagione di pizze come minimo. Lentamente, solo per colpa mia, mi si apre un mondo di possibilità nelle comunicazioni video da computer. C’è un mondo di supporto intorno e sembra che niente sia veramente impossibile, a patto di volerci mettere impegno. È computing nella sua forma più pura, software libero che offre possibilità immense veramente a chiunque.
Un iPad e un tecnoumanista stagionato, a letto, prima che arrivi il sonno.
Lo schermo è diviso in due finestre, una per scrivere su
Drafts e una per leggere da Safari. Sopra alle due finestre, in modalità picture-in-picture, si svolge una puntata di
Foundation.
Sembrerebbe multitasking, ma è un’altra cosa. Multisensing: tatto, vista, udito insieme in un contesto assai differente da quello in cui tanti sono cresciuti. Dove il dovere era separato dal piacere, il lavoro dall’intrattenimento, i contenuti venivano creati o fruiti isolatamente, in microambienti dedicati, o in macroapparecchi specifici.
Sembra quasi un apologo creato apposta, il
resoconto di John Gruber delle particolarità di Fairphone 4, per parlare di
riparabilità e di diritti.
Fairphone è un progetto funzionante sotto Android, nato per essere modulare, riparabile e con parti facilmente sostituibili a partire dalla batteria. Un Fairphone si apre con un normale cacciavite Philips.
In compenso, la resistenza alla polvere è IP54:
Protetto contro l’ingresso di polvere sufficiente a pregiudicare il normale funzionamento, ma non a prova di polvere.
Se i Comandi rapidi su Mac, arrivati in un metaforico altroieri, consentono a Federico Viticci di
esportare senza scripting aggiuntivo i link dei siti da leggere memorizzati in Safari, vuol dire che c’è del buono.
Forse è la volta buona che lo scripting su Mac, oltre a esserci, riceve attenzioni serie dagli sviluppatori interni ad Apple. Vedere una tecnologia come questa fiorire e affermarsi può solo fare bene persino agli scettici, quelli che brontolano ma poi, dei comandi utili, approfittano per primi.
Oggi si celebra una festa americana che mi ha sempre coinvolto emotivamente più di altre. È una festa peculiare e oltretutto abbastanza artificiale, perché farebbe riferimento ai colonizzatori del Nuovo Mondo ma in realtà, per quanto ne so, è stata indetta dal presidente Roosevelt nel 1941.
Eppure mi trovo davanti a Mac mini, con abbondanza di lavoro da svolgere, una famiglia che dorme e un albero di Natale nuovo che le figlie hanno imposto di aprire e montare subito nonostante sia un po’ presto. Posso empatizzare con problemi da primo mondo come
sentirsi un master di Dungeons & Dragons migliore di quanto sia giocatore e pure dolermi di non riuscire a fare il master perché a distanza e a casa una famiglia con l’età media della nostra, figlia-uno alle primarie e figlia-due alla materna, te lo rende gioiosamente impossibile.
È arrivato
watch Series 7, ordinato un mesetto dopo l’annuncio ufficiale.
I video e le celebrazioni degli unboxing non sono esattamente il mio genere, ma questa avrebbe potuto essere un’eccezione. La confezione è rigorosamente riciclabile eppure bellissima, per ingegnosità di ingegnerizzazione e cura dei particolari. Un incastro alla volta, piega dopo piega, la sensazione è disvelare un mistero, arrivare a un tesoro. Nessuno che conosco pagherebbe un euro in più esplicitamente per godersi l’apertura di una confenzione; analogamente, chiunque conosca si godrebbe una apertura come quella che mi sono goduto io. Sembra di essere speciali, anche se quella confezione esiste in milioni e milioni di copie tutte uguali.