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Dal mondo Apple all'universo digitale, in visualizzazione rapida dell'ovvio

30 mag 2015

Apple non facit saltus

La prima premessa è che amo molto il retrocomputing e, se ho rimpianti sul tempo che passa, consistono nell’avere dedicato al vecchio Sinclair QL meno tempo oggi di quello che meriterebbe, per non parlare del Newton MessagePad 2100. Non so neanche dove potrebbe essere finito il fantastico Z88 di Cambridge Computing.

La seconda premessa è che, al netto della prima, il retrocomputing mi ha anche un po’ annoiato. Iniziative come All About Apple Museum sono da premiare e valgono da sole un festival della cultura; l’idea di trasformare un vecchio iBook in macchina emacs per scrivere elisp è affascinante; di converso, quando manca uno scopo vero e proprio, l’antico per l’antico completamente fine a se stesso mi è diventato stucchevole.

Riesco a provare entusiasmo se vedo ingegno e se vedo l’idea del retrocomputing come un punto di partenza invece che il ritorno nostalgico agli anni di quando si era giovani e le cose non erano fantastiche perché lo erano, ma perché si era giovani.

Ingegno e slancio verso il futuro: ne avverto traccia in questo simpatico hack che mette in comunicazione watch e un Macintosh 512Ke, non il primo a essere prodotto ma molto vicino a quel momento.

Mi piace perché colma trent’anni di informatica in un passo, anzi due. Mi piace infatti perché c’è ingegnosamente di mezzo anche un PowerBook G3 WallStreet. Mi piace perché tutta la parte interessante dell’interazione avviene su watch, grazie a Workflow. Programmare su un Macintosh 512Ke era un’esperienza veramente di frontiera. Ma, per quanto in un altro modo, la frontiera di watch è molto, molto più avanti.

Il simbolismo però è notevole: il più antico dei Mac (OK, quasi) e il più moderno dei device uniti per un istante, come se in mezzo non fossero avvenute centinaia di mutazioni ed evoluzioni.

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