Si parla spesso di privacy con poca chiarezza rispetto a quello che c’è in gioco. A volte i discorsi sembrano aerei: il capitalismo della sorveglianza, se è gratis il prodotto sei tu, tutte le idee nobili e grandi abbastanza lontane da qualsiasi ricaduta reale nella vita. Si capisce meglio con esempi chiari e concreti.
Prendiamo Waze, la geniale applicazione che aggiorna in diretta sulle condizioni del traffico, prima di qualunque bollettino ufficiale, grazie al contributo di chi si trova in strada e fornisce notizie dal punto in cui si trova: incidenti, lavori in corso, deviazioni, maltempo.
Waze è un esempio da manuale della potenza della rete. Più persone partecipano più il suo valore aumenta e a chiunque si trovi o progetti di trovarsi in strada ne conviene l’uso.
Contemporaneamente, Waze è una app con privacy minima. La app vuole sapere per forza da dove arrivano le segnalazioni, sia per collocarle sulla mappa sia per verificare che siano attendibili. Vuole anche sapere dove si trovano le persone in ascolto, per inviare loro le notifiche che riguardano il loro tratto di strada. In linea di principio, chi usa Waze è molto facilmente localizzabile da parte della app. Se non fosse così, il meccanismo non potrebbe funzionare. Chi guida accetta di fornire la propria posizione a Waze in cambio del vantaggio di avere aggiornamenti stradali pertinenti e in diretta. Il baratto è equo, se non vantaggioso.
Un altro esempio. Da giorni moltissimi immigrati americani, legali e no, sono preoccupati per le attività degli agenti in forza all’Immigration and Customs Enforcement, ICE. Si registrano arresti, maltrattamenti, rimpatri forzati senza preavviso, anche nei confronti di cittadini americani da tempo regolarizzati.
È stata creta una app che ribalta il concetto di Waze, di nome ICEblock. La app sfrutta la rete delle persone collegate e le loro segnalazioni per posizionare sulla mappa gli agenti ICE attivi in un raggio di cinque miglia, circa otto chilometri. In questo modo chi si sente a rischio può decidere di rientrare a casa o cambiare zona.
Anche il più ingenuo capisce che ICEblock deve essere una app a privacy massima. Se una sorveglianza potesse risalire a chi invia segnalazioni, potrebbero crearsi situazioni spiacevoli.
Così ci capisce meglio il valore della privacy. Un inciso: in Italia c’è una corrente di opinione che vuole rimpiazzare SPID con CIE, la carta di identità elettronica, per gli accessi sicuri alla rete. Se accadesse, un ipotetico governo autoritario avrebbe in mano un’arma di sorveglianza spettacolosa. Fine inciso.
Gli autori di ICEblock sono alle prese con un problema gigantesco: per ora la app può esistere solo su iOS mentre, come è immaginabile, c’è una parte di pubblico molto consistente che vorrebbe usarla, se solo non avesse risparmiato e comprato Android.
Succede, raccontano gli sviluppatori, che per inviare notifiche con una app Android occorre disporre degli ID dei telefoni interessati e custodirli in un database. Ci si può immaginare che cosa potrebbe accadere se ICE requisisse i computer degli autori e vi trovasse sopra un database, di fatto, di persone che aiutano la gente a sfuggire all’arresto o alla perquisizione.
Su iOS, invece, una app può generare notifiche senza memorizzare alcun mittente. La privacy di chi fornisce informazioni a ICEblock è al sicuro.
(Sul web ICEblock non può assolutamente funzionare in condizioni di sicurezza).
Possiamo anche concedere il beneficio del dubbio ai tifosi Android e ritenere che i programmatori di ICEblock non siano abbastanza capaci di garantire la privacy sulla propria app in versione Android.
Ma significherebbe che la privacy su Android, invece che impossibile da mantenere con lo stesso livello di iOS, sarebbe solamente molto più difficile.
Ora dovrebbe essere chiaro che cosa significa privacy e perché ha un grande valore, che lo si capisca o meno.
Come bonus, quando sentissimo dire che alla fine prendere iOS o Android è la stessa cosa, potremmo con sicurezza e disinvoltura invitare l’interlocutore a recarsi a scopare il mare.