Pare, stando a The Register, che Bruce Perens, uno dei fondatori di Internet, sia al lavoro su che cosa verrà dopo l’open source: il Post-Open Source. Non c’è bisogno di essere Bruce Perens per capire che l’open source ha bisogno di essere riformato per tornare a incidere e a tutelare la libertà di programmare e usare i programmi. Il suo parere è però autorevole e dice cose come queste, sacrosante:
Prima di tutto, le nostre licenze hanno smesso di funzionare. I business hanno avuto abbastanza tempo per trovare tutti i cavilli per aggirarle e così ci serve qualcosa di nuovo. La licenza GPL non funziona come dovrebbe, nel momento in cui un terzo di tutti i sistemi Linux a pagamento viene pagato aggirando la licenza stessa. Questa è RHEL.
Questa è Red Hat, le cui pratiche di vendita e gestione del software hanno infastidito i concorrenti nel mondo Linux. È tutto vero, chi vuole fare software commerciale a partire da Linux si permette comportamenti sempre più contrari allo spirito del software libero.
L’intervista è piuttosto lunga e ci si perde un po’ nel legalese, ma su una cosa Perens ha assolutamente ragione: il Post-Open, o come si chiamerà, deve mantenere tutto gratuito per le persone singole e il no profit, mentre tutte le entità commerciali devono pagare il giusto per i benefici che ricevono. Adesso va così, ma non va bene, perché le software house fanno effettivamente donazioni di grande entità; solo che sono sempre più spesso vincolate alla presenza negli ambiti decisionali e comunque sono l’oggetto di contrattazioni, alla luce del sole come anche nell’ombra. Dovrebbe esserci invece un rapporto commerciale preciso, il software usato è questo, il prezzo è questo.
Purtroppo è solo metà del problema. L’altro è il contributo massiccio delle software house più grandi in termini di sviluppo. Linux contiene una quantità di codice mostruosa fornita da Microsoft in testa e poi da vari altri, che sicuramente pagano per il privilegio come si diceva, ma in cambio influiscono appunto sulla direzione di sviluppo. Nessun singolo o gruppo di singoli può mettersi a confronto con un team Microsoft composto da decine di programmatori pagati profumatamente per somministrare a Linux milioni di righe di codice. Qualsiasi meccanismo di correzione di questa stortura deve essere esterno e parallelo al discorso delle licenze; indipendentemente da quello che succede con i passaggi di denaro, l’ingresso in un software libero di codice prodotto da aziende commerciali dovrebbe essere soggetto a regole le più restrittive possibili. Il kernel dovrebbe restare il più possibile pulito e affidato a persone indipendenti. Poi, se una azienda vuole fornire tonnellate di driver per i suoi prodotti hardware o API per il libero interscambio dei dati, niente da ridire, anzi. Ma per fare sviluppo diretto devono vigere altre regole. E fuori tutti gli stipendiati di un’azienda o l’altra da dove si decidono le strategie. Dice, ma poi pagheranno sottobanco la gente per corromperla. Possibile. Possibile che succeda già ora, voglio dire, perché l’appetito non si placa mai.
I sistemi meno gettonati, per esempio tutti i *BSD, sono più puliti, più liberi e meno condizionati. Al tempo stesso sono meno considerati, meno finanziati e devono competere con una concorrenza spietata. Il meccanismo non lascia scampo e dà e toglie con coerenza ineludibile. Occorrerebbe un qualche sistema di compensazione, tutto da inventare, per cui le buone iniziative open source sopra un certo livello di rilevanza e di genuinità dello sviluppo possano giovarsi del successo commerciale di altre iniziative più sotto i riflettori. Qualcosa di simile a quello che accade negli sport professionistici, dove i contratti televisivi e la pubblicità fanno naturalmente leva sulle squadre di vertice, però ci sono meccanismi di distribuzione delle entrate verso tutte le squadre che compongono la lega e comunque contribuiscono al suo successo, anche se in prima pagina non arrivano.
Il nome Post-Open Source mi piace poco, per dare un segnale di cambiamento. Abbiamo una soluzione molto pratica e collaudata: chiamiamolo Libre Source. LibreOffice esiste, funziona bene e dà grande fastidio ai soliti noti, che è una bella garanzia di valore. Non credo che estendere il branding Libre al software libero voglioso di rimanere tale sarebbe un problema.
Sarebbero tante ragioni supplementari per iscriversi a LibreItalia, che sta giusto arrivando l’anno nuovo. Chissà, magari qualcuno proporrà l’idea anche a Bruce Perens.