Eccoci qua. Il New York Times titola Ho provato il programma di riparazione fai-da-te di Apple con il mio iPhone. Con esito disastroso.
Sottotitolo: gli strumenti e le istruzioni di Apple sono tutt’altro che ideali per molti di noi. Lo so perché, cercando di farne uso, ho rotto il mio iPhone.
Non voglio neanche leggere l’articolo, perché non è una notizia. È una statistica.
Può darsi che il kit di Apple sia tutt’altro che ideale e favorisca qualche manovra sbagliata da parte di un incompetente. Può darsi che sia il peggiore kit possibile. Anche se fosse il migliore, una volta distribuito un numero sufficiente di kit, è matematico che qualcuno non riuscirà a usarlo.
Allora apparirà un articolo su un quotidiano e Apple ne uscirà male, qualunque sia il livello di qualità del kit, qualsiasi siano gli strumenti e le istruzioni, comunque siano realizzati gli iPhone. Anzi, più sono il meglio del meglio, più un’incapacità di usarli farà notizia e scalpore.
Si capisce perché Apple abbia varato il programma di autoriparazione: per calmare gli esagitati del right-to-repair. E si capisce che lo abbia fatto per forza, dato che comunicativamente parlando si tratta di uno sparo nel piede annunciato.
Non si poteva fare altro. La cosa bizzarra però è l’impossibilità di instaurare una discussione normale sul right-to-repair, che è tutto tranne un right. Se mi danno gli strumenti e non sono capace di usarli, ho il diritto di incolpare il costruttore?
Hai il diritto di riparare il tuo iPhone se prima hai esercitato il tuo diritto di studio e hai imparato come si fa. In altre parole, non hai alcun diritto; semmai è giusto chiedere la possibilità di provarci, che è tutt’altra cosa.