Si saranno casualmente notate polemiche recenti relative all’immigrazione in Italia. Polemiche da cui mi terrò a distanza.
Tuttavia, gira da tempo un messaggio che fa notare come iPhone sia dovuto alla possibilità per un immigrato siriano di trovare asilo negli Stati Uniti e lì concepire Steve Jobs. Qui mi sento di intervenire proprio per il rispetto dovuto a persone che lasciano il proprio Paese alla ricerca di una vita migliore, insultate dall’autore di questo messaggio con la propria ignoranza.
Il padre di Steve Jobs, Abdul Fattah Jandali, era un figlio di papà.
Suo padre, nonno biologico di Jobs, era un milionario che mandò a studiare il figlio in Libano.
Solo che il Paese dei cedri entrò in una fase di forte instabilità politica e Jandali, finito nei guai per il suo attivismo nazionalista, fu nuovamente inviato dal padre ricco a studiare, questa volta negli Stati Uniti.
Abitava a New York e condivideva l’appartamento con un parente: l’ambasciatore della Siria.
Jandali non era un immigrato, bensì uno studente. Non ha avuto asilo ma un permesso di studio. Oggi nessuno chiama immigrati, rifugiati o profughi gli Erasmus o i ragazzi cinesi che affollano Stanford. Poi, già detto, i denari e le conoscenze della sua famiglia non erano quelle di un cittadino siriano scelto a caso.
Se fosse stato in fuga dal suo Paese per fame o guerra o persecuzione, non vi sarebbe tornato a tentare la carriera diplomatica (non la pastorizia, la carriera diplomatica), per poi doversi accontentare di dirigere una raffineria. Se fosse stato un rifugiato in miseria e senza documenti, non sarebbe ritornato agevolmente negli Stati Uniti a insegnare al college e comprarsi un ristorante come ha poi fatto.
Steve Jobs è nato in America nonché cresciuto in America in una famiglia di americani medi e associarlo all’immigrazione è come minimo disonesto.
Tra un rifugiato siriano 2018 e il padre di Steve Jobs c’è un abisso e l’unica similitudine possibile è che sono conterranei. Lucky Luciano e Enrico Fermi sono immigrati negli Stati Uniti, però sono persone diverse dalla maggior parte degli emigrati italiani e non rappresentano la categoria.
Aggiungo in coda che, volendo raccontare una storia interessante di immigrazione e tecnologia, ne esistono di notevoli. Per esempio quella di Philippe Kahn, francese che (tra l’altro) fondò Borland, negli anni novanta multinazionale del software capace di contrastare Microsoft.
Kahn, uomo eclettico e per esempio sassofonista capace di pubblicare un album credibile, era un immigrato clandestino.
Le autorità se ne accorsero solo quando era diventato datore di lavoro di numerosi americani.
Certo, parlare di Philippe Kahn e Borland non permette di biascicare moralismo su Facebook e farsi condividere dalle teste vuote di tutto tranne che la propaganda.