Troppo facile la retorica su Steve Jobs o la nostalgia. Più impegnativo riconoscere il valore autentico del suo lascito.
Per questo ho faticato ad arrivare in fondo alla lunga esclusiva di Wired, per il quale Steven Levy ha potuto girare in lungo e in largo Apple Park.
Si capisce troppo bene e troppo spesso come si tratti dell’ultimo grande lavoro di Jobs, il cui tocco è presente nell’insieme e nei particolari.
Lettura dolorosa perché riporta alla mente la pesantezza della perdita, affascinante perché penetra nella creazione di un’architettura unica per la quale financo i cartoni della pizza sono progettati apposta e brevettati, straniante per la (ri)scoperta di un mondo dove il dettaglio è ancora fondamentale e la passione arriva prima del denaro. Apple è seduta sopra una montagna di denaro, ma è facile capire che qualunque altra azienda avrebbe speso la metà gridando ugualmente al capolavoro.
Non c’era stretto bisogno di Apple Park. Fino a quando Steve Jobs ha fatto capire che, in realtà, c’era e non ce ne eravamo resi conto.
E così il suo nome comparirà sull’auditorium. Ma chiunque cercasse le impronte di Steve Jobs su Apple Park le troverà dovunque—nei bagliori delle curve dell’Anello, in mezzo agli alberi e in migliaia di altri dettagli che possiamo e non possiamo vedere.
L’ultimo, grande prodotto.